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Donne italiane costrette a lavorare 12 ore nei campi per pochi euro. Ma qualcosa sta cambiando

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Nella piana di Metaponto, in Basilicata, circa un mese fa 14 aziende agricole sono state poste sotto sequestro perché i lavoratori venivano trattati come cittadini di serie B, piuttosto che come lavoratori con i propri diritti.

La piaga dello sfruttamento del lavoro agricolo non colpisce solo gli immigrati che vengono sfruttati (in molti casi schiavizzati) dai caporali, ma anche gli Italiani, per la maggioranza donne, che lavorano per 10-12 ore al giorno per circa € 40.

La mancanza di qualsiasi valida alternativa di lavoro, soprattutto nel Sud Italia, rende queste donne soggette alle condizioni di sfruttamento cui le obbligano i cosiddetti ‘caporali’, veri e propri intermediari tra la domanda e l’offerta di lavoro, che decidono ogni giorno chi lavora, dove, per quante ore e a quanto, senza possibilità di replica: chi protesta semplicemente rimane a casa.

Lucia Pompigna lavora nei campi da 30 anni, di cui almeno 20 trascorsi alla mercé dei caporali. "Ieri, quando lavoravo dovevo obbedire. Qualsiasi fossero gli ordini che mi venivano dati non potevo commentarli. In questo momento, invece, ho la possibilità di dire la mia, di chiedere che vengano rispettati quelli che sono stati gli accordi; per cui sono diventata un soggetto attivo, non più passivo.”

Oggi Lucia può dire la sua grazie al progetto IAMME, un progetto unico nel suo genere, perché mette per la prima volta in rete tutti gli attori coinvolti nella filiera della produzione agroalimentare, dalle lavoratrici ai loro datori di lavoro e la grande distribuzione. IAMME è sia l'inglese per ‘Io sono Me’ che l’espressione 'andiamo' in napoletano.

Questo progetto dà a 50 lavoratrici come Lucia, ai produttori locali e alla distribuzione organizzata la possibilità di lavorare insieme nel pieno rispetto sia dei diritti di chi lavora che delle necessità commerciali di chi deve vendere all’ingrosso e al dettaglio, come ci spiega Gianni Fabbris, uno dei fondatori del progetto con la sua associazione Rete PerlaTerra, che ha sposato appieno la proposta dell’associazione NO CAP e coinvolto anche la grande distribuzione del gruppo Megamark.

IAMME è il primo tentativo in Italia di costruire una filiera trasparente e di costruire una filiera che sia tutta etica, dalla produzione fino alla fine, alla distribuzione e consumo.

È una filiera che punta alla equa distribuzione del valore aggiunto che si determina, prezzi giusti ai consumatori, grandi qualità delle produzioni, rispetto pieno dei diritti. Questo per noi è il cibo etico e questa per noi è la filiera etica".

In questa filiera, le lavoratrici e i lavoratori hanno contratti regolari, non lavorano più di 6 ore e mezza al giorno e non vengono sottopagati, ai produttori è garantita la vendita equa del prodotto, cioè non sottocosto, alla grande distribuzione e a questa, a sua volta, è garantita l’alta qualità del prodotti a prezzi competitivi per il consumatore finale.

Purtroppo, la prassi comune per la Grande Distribuzione Organizzata è comprare al minimo per vendere al massimo e questo significa comprare sottocosto dai produttori locali che, a loro volta, tagliano il costo del lavoro e, per fare questo, si affidano ai caporali. Un circuito vizioso che il progetto IAMME ha interrotto con successo.

Adesso Lucia può dire di avere un lavoro vero, anche se il ricordo della sua vita passata è ancora forte. "Adesso so che intorno a me c’è un gruppo di persone che mi sostiene. Cosa che prima magari sentivo meno, perché alle lavoratrici purtroppo fa paura, non ti danno sostegno. Sono pochissime quelle che mi hanno sostenuta. Ho sofferto il fatto che loro sono state punite per essere state al mio fianco, perché non le hanno fatte più lavorare".

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