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“Pane e libertà”, lavoro e democrazia, ieri come oggi

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Il 3 maggio è stata la Giornata mondiale della libertà di stampa e, unitamente all’emozione del ‘primo’ Concertone del I maggio ‘a distanza’ (“eccezionale, perché tutti abbiamo lo stesso desiderio di ripartire, di ricominciare, di rinascita”, come ha ben spiegato la presentatrice Ambra Angiolini), si torna a ragionare sui concetti di libertà e di lavoro. Questo grazie alla sensibilizzazione lanciata da un valido film: “Pane e libertà”, con Pierfrancesco Favino, per la regia di Alberto Negrin, andato in onda proprio il Primo Maggio su Rai Uno.“Pane e libertà” racconta la storia del sindacalista Giuseppe Di Vittorio, di chi si è battuto per i diritti di tutti i lavoratori; poco contava che fossero 100 o 100mila, tutti avevano pari diritti di essere ascoltati, di lavorare e persino di unirsi in associazioni sindacali che dovevano essere il più trasversali possibili. Lui propose addirittura che liberali, democratici, socialisti si unificassero per garantire i diritti di tutti i lavoratori e si ponessero a loro tutela e difesa. Dall’Italia all’America, come disse nel suo discorso a Washington. Un impegno intrapreso sin da giovane, quando organizzò uno sciopero per i diritti di tutti i braccianti. Sì, perché lui credeva molto nello sciopero, come forma di protesta anche pacifica, e lo sollevò al grido di “pane e libertà”, ovvero libertà che si associava a diritti universali e pane alla necessità di vedersi garantito il minimo indispensabile per la sopravvivenza. E che poi riprenderà in Parlamento al grido di “Vergogna!” nei confronti di tutti i politici che non avevano difeso tali diritti e tutti i lavoratori, ma avevano assistito inermi, passivi a quelle morti bianche che dovevano cessare, lasciando soli quegli uomini, i più ‘deboli’, i più svantaggiati.

Infatti nel 1920 viene candidato ed eletto in Parlamento nelle file del PSI, ma la sua non sarà mai una battaglia politica, ma umana, umanitaria e universale. Una battaglia per le libertà e i diritti dei lavoratori, come quella contro il potere opprimente del fascismo che dovettero tenere molti partigiani italiani. E questo ben appare sullo sfondo: una battaglia tra vita e morte; fatta di uccisioni e trucidazioni in pieno giorno, di scomparse di persone care e di nascite; di riconquiste e di perdite; di un rinascimento fatto di distruzione e di ricostruzione, anche di una vita nuova. Un tempo lungo, inesorabile e interminabile, fatto di lunga attesa, di incertezza, di incognite, ma anche di grandi lezioni di umanità; di ansie, speranze e disillusioni. Una battaglia che si poteva sostenere e vincere solo grazie all’amore, alla famiglia e all’amicizia fraterna dei compagni del fronte e non solo, alla loro solidarietà e vicinanza umana. Un’esperienza atroce che insegnò che cos’è il perdono. Un’eredità trasmessa di generazione in generazione, di padre in figlio. Giuseppe Di Vittorio dovrà partire per il fronte giovane e non saprà che cosa la sorte gli riservi; ma chiederà alla sua donna Carolina Morra (alias Raffaella Rea) di aspettarlo. Al suo ritorno i due si sposeranno. Ma proprio quando la guerra sembrata finita per loro e che avessero finalmente trovato un po’ di pace e serenità, un attentato li colpisce alle spalle (a tradimento quasi) da vicino: non solo Giuseppe verrà ferito, ma finirà persino in carcere. Ciononostante i due supereranno anche questo periodo ed avranno un secondo figlio; ma, nel frattempo, per Di Vittorio iniziano le prime perdite: la moglie si ammala e muore. Storie di donne e uomini che hanno dovuto lottare con la paura, nel coraggio, per superare i traumi di una guerra. Si ricostruirà, nel tempo, una nuova vita con Anita (Federica De Cola), però il figlio non accetterà questa nuova figura affianco al padre. Comprenderà l’importanza della donna solo quando si ammalerà gravemente ed – al contempo – perdonerà e chiederà perdono al padre per l’errore di valutazione compiuto nel passato.Di Vittorio, tuttavia, porta avanti una triplice lotta: quella sul fronte di guerra, quella privata con la sua famiglia e i suoi dolori personali, le preoccupazione e le sofferenze che lo coinvolgono in prima persona, quella politica e sociale nella aule di tribunale anche, per i diritti dei lavoratori, per le loro libertà, per una lotta sindacale, ma da sindacalista democratico, che vedeva nella libertà e nel diritto al lavoro, il diritto alla dignità della persona umana e una forma di democrazia da difendere con ogni mezzo e con ogni strumento, fino alla fine, rischiando in prima persona e sulla propria pelle. Passando dalla reazione all’azione, per una vera rivoluzione sociale.

Nell’immediato dopoguerra è eletto primo segretario generale della CGIL e membro dell’Assemblea Costituente nelle file del PCI. Un impegno che porterà avanti nonostante le sue condizioni fisiche e di salute non fossero delle migliori e meno buone, tanto da portarlo a ‘morire sul campo’, subito appena dopo aver raggiunto un importante traguardo e un riconoscimento ufficiale di suoi sforzi. Per una conquista una perdita, tra guerra e pace, tra vita e morte, tra diritti e doveri, tra lotta e perseguimento del riconoscimento di libertà fondamentali. Appena ebbe ritrovato il figlio, perse la madre infatti (interpretata da Anna Ferruzzo; nel cast anche Giuseppe Zeno nei panni del barone Orlando Rubino e Francesco Salvi in quelli di Bruno Buozzi).

Dunque un film non incentrato esclusivamente sulla lotta di classe, di partito, proletaria, di sindacato, ma che guarda allo sfondo bellico per rafforzare i concetti stessi di libertà, di lavoro, di lotta per la democrazia tramite il contesto del conflitto mondiale stesso. Per una panoramica nazionale, patriottica, che guarda all’Italia, al mezzogiorno del Paese, ma anche all’estero, in una sfumatura più universale. Infatti non è meno rilevante l’ambientazione tra Bari, Gravina di Puglia e Altamura, anche se Giuseppe Di Vittoria era originario di Cerignola (in provincia di Foggia). Il film vanta le musiche di Ennio Morricone, ma l’abilità del regista Alberto Negrin è stata nei ‘salti temporali’, con continui flashback e balzi in avanti, che ha saputo dare al film. Non narrandolo in forma lineare e cronologica, ma frastagliata, frammentaria quasi, come per grandi fotogrammi, ha permesso al film di essere più fruibile e meno denso, senza essere meno intenso e profondo. Senza togliere nulla alla drammaticità del racconto, ha tolto crudezza laddove possibile: per esempio, al momento della morte della prima moglie di Giuseppe Di Vittorio, vediamo che viene rappresentata come una morte dolce, mentre lei se ne va con un sorriso sulle labbra, pensando solo ai bei momenti vissuti assieme al marito, e annullando ogni dolore, tra le sue braccia: rivediamo con lei le scene del loro matrimonio, della loro giovinezza, della nascita dei loro due figli. In questo la bravura di uno straordinario Pierfrancesco Favino è innegabile.

Ultima nota; è interessante notare come sia molto attuale, pur essendo un film del 2009, mandato inizialmente in onda in tv come miniserie tv in due puntate (rispettivamente il 15 e il 16 marzo del 2009), in grado di riscuotere uno share del 22, 43 e 22,48%, pari a circa 5.548.000 e 6.086.000 spettatori.Lotta per la propria libertà, lotta per i propri diritti, lotta per il lavoro. Difesa della propria patria e terra (dall’invasore oppressore) da un lato e difesa dei propri diritti appunto dall’altra. In questo contesto si inserisce il grido collettivo: “Questa è casa nostra!” (di Giuseppe e dei suoi compagni e concittadini), a difesa dal ‘nemico’.

Per concludere, a proposito delle musiche di Ennio Morricone di cui dicevamo, ci piace citare una canzone che ben può descrivere il panorama e l’atmosfera raccontata e narrata dal film. Per lo scorso primo maggio di quest’anno (giornata in cui è stato ritrasmesso in tv il film) gli storici musicali Luciano Ceri e Paolo Prato hanno creato una playlist di brani inerenti il lavoro per celebrare la Festa dei Lavoratori, ribattezzata – per dirla con le parole di un testo di Giorgio Gaber, tra le tante canzoni selezionate per la playlist (niente di meno che per il Portale della Musica Italiana addirittura) appunto – “il nostro giorno”, che risuona un po’ come quel grido “Questa è casa nostra!”.

Nel brano di Gaber si dice, citando fedelmente, ma sono parole significative che ben possono essere poste a sunto e corredo del messaggio di “Pane e libertà”: “un giorno per chi vive nel lavoro, un giorno per chi spera nel futuro, un giorno per chi lotta con coraggio”. Tutto questo ebbero e possedettero uomini come Giuseppe Di Vittorio: speranza nel domani, in un domani migliore, in un cambiamento possibile; adoperandosi in una lotta portata avanti con coraggio, tra rabbia e dolore, fiducia ma anche disperazione; una battaglia atroce condotta per il diritto al lavoro: per averne uno per chi fosse senza, per mantenere quello che si aveva già con dignità, per vedersi riconosciuta la giusta ricompensa per l’operato svolto e la possibilità di farne anche una professione gratificante e non umiliante o logorante, che fosse produzione di ricchezza e benessere per tutti e non mero sfruttamento, in condizioni igienico-sanitarie degne e dignitose, rispettose della persona umana e delle sue libertà fondamentali.

Contro ogni forma di totalitarismo, di prevaricazione e di soprusi, tanto su donne che su uomini, su giovani che su anziani, che su adulti, su italiani o su stranieri. Una lotta per l’emancipazione collettiva potremmo dire e non per il potere. Ieri come oggi, soprattutto in questo momento particolare di pandemia che stiamo vivendo. Una guerra diversa, di stampo moderno, ma non meno atroce, dura e crudele, in cui occorrono quella forza e quel coraggio, quella determinazione e quella speranza, per non mollare, ma soprattutto per credere nel domani e per avere ancora fiducia nel lavoro, che si ritornerà a vivere nella ‘normalità, che ‘andrà tutto bene’, come quel grido “pane e libertà” a quei tempi. Pane e libertà, ma anche pace e libertà. E se oggi si sta combattendo la battaglia contro un’emergenza sanitaria, non meno grave fu all’epoca e non diverso fu il mezzo e lo strumento, l’arma (non violenta) usata: ovvero il senso ritrovato di fratellanza, solidarietà, unione ee unità. L’unità e l’unione di un’Italia che ce la fa e si risolleva insieme, lottando tutti assieme, uniti.

 

Barbara Conti

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