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Servizi pubblici impoveriti e precari. Come affronteremo la “fase due”?

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

L’irrompere del coronavirus ha messo a nudo la fragilità del nostro sistema sanitario nazionale, impoverito da tagli, restrizioni, riduzione del personale, accanimento burocratico, privatizzazioni. Nello stesso tempo ha messo in luce la sua grande capacità di reazione, una volta che ci fossero sufficienti risorse, attenzione e fiducia negli operatori. Abbiamo avuto proprio nel corso della drammatica “fase uno” la prova di quanto conta l’impegno da parte dello Stato e delle Istituzioni pubbliche. Abbiamo visto raddoppiare le disponibilità di terapie intensive, supportate da uno sforzo poderoso e, nello stesso tempo, abbiamo visto la difficoltà e il dramma di una sanità territoriale, già falcidiata negli anni passati e almeno inizialmente trascurata nel corso dell’emergenza. Ne stiamo pagando duramente i costi, purtroppo anche in termine di dolore, di vite umane perdute, di paura delle persone che a casa non si sentono tutelate e degli anziani rinchiusi nelle RSA e nelle case di riposo.

È una lezione sulla quale dovremmo riflettere attentamente.

La “fase due”, la lunga e prudente convivenza con il virus che ci si prospetta, sta ora mettendo a nudo la fragilità delle strutture della nostra vita associata. E di nuovo tutti noi, ma –permettetemi – in particolare le donne, avremo a che fare ancora con paura, incertezza solitudine.

E l’incertezza e la paura si accrescono perché non vediamo su queste fragilità la consapevolezza e l’impegno convinti delle istituzioni e della politica. Una volta usciti e uscite dal lockdown, invitati a tenere le distanze, a non creare assembramenti, a dimostrare responsabilità e senso civico, ci troveremo di fronte a scuole e asili chiusi, trasporti pubblici scarsi e spesso fatiscenti, lavori perduti, contratti precari non rinnovati, attività costruite con tanta fatica e i risparmi dei genitori a rischio di chiusura definitiva, stretti tra la paura del ritorno del contagio e la necessità di tornare a lavorare, di mettere insieme il pranzo con la cena.

Di fronte a queste nuove paure, però, non troviamo nessuna risposta convincente, nessuno sforzo straordinario, nessuna Protezione Civile, nessuno stanziamento straordinario di risorse.

I tagli alle regioni e ai comuni, il vero e proprio salasso operato negli anni ai danni della scuola e dell’università, ci restituiscono oggi, in tante parti d’Italia, trasporti pubblici insufficienti, sporchi e insicuri, scuole spesso fatiscenti, con classi numerose in aule anguste, senza tempo pieno, con cortili e spazi esterni inagibili, spazi verdi senza manutenzione, strade piene di buche (dove dovremmo passare con i monopattini e le biciclette, magari con bambini e anziana mamma al seguito), la difficoltà di tutte le strutture di associazionismo e volontariato a riaprire e a riprendere l’attività, la crisi drammatica del grande mondo della cultura. Eppure tutti sono elementi essenziali della vita e della coesione sociale delle nostre città.

La deregolamentazione del lavoro, l’espandersi dei contratti precari, dei lavoretti, dei lavori poveri ci consegnano, oggi, durante la convivenza con il virus, lo spettro di una disoccupazione crescente e senza speranza, l’angoscia di due generazioni che sono passati da una crisi epocale all’altra nel giro di un ventennio, vedendo bruciare i propri sforzi e le proprie speranze.

Decenni di definanziamento della Pubblica amministrazione, di demonizzazione di tutto ciò che è pubblico, di abbandono, mancata manutenzione, assenza di investimenti pubblici, di privatizzazione e negazione di diritti non si riparano con l’appello alla responsabilità dei singoli.

Pensare che il Paese possa ripartire semplicemente perché riaprono le sue industrie, vuol dire non conoscerlo. Anzi vuol dire non tenerne conto.

Esiste un lavoro, quello di riproduzione della vita, essenziale e decisivo per la vita di tutte, tutti e del paese. E questo lavoro non è più nascosto nel privato delle case, non è più soltanto, lavoro gratuito delle donne. È costituito da grandi istituzioni come la scuola e da migliaia di strutture pubbliche e sociali e private, grandi e piccole, che costituiscono una delle ricchezze del Paese.

Potremo ripartire ignorando i diritti di chi lavora e soprattutto di chi non ha lavoro, pensando di costruire profitto sulla precarizzazione e sull’impoverimento di chi lavora in tutta la grande filiera dei servizi? Pensare che questo mondo sia marginale e abbia bisogno soltanto di aiuti altrettanto marginali, significa solo candidarci ad essere vittime impreparate della prossima emergenza.

Far ripartire vita richiede uno sforzo straordinario ed eccezionale, pari se non superiore a quello profuso per far ripartire le aziende, pari se non superiore a quello speso per cominciare a riparare in emergenza ai danni dei tagli alla sanità pubblica.

Aumentare le classi e gli insegnanti, ridurre il numero dei bambini e dei ragazzi per classe, accrescere il numero dei treni e dei bus, investire per rendere scuole, parchi, cortili agibili e ben tenuti, costruire un poderoso sforzo di manutenzione delle nostre città, ripensare e aumentare gli spazi della produzione e della fruizione della cultura, sostenere nei prossimi mesi chi ha dovuto chiudere le proprie piccole aziende di servizio, i propri negozi, per consentire loro di sopravvivere nei prossimi lunghi mesi, aiuterà a convivere con il virus, aiuterà a mantenere il distanziamento sociale, ma ci consegnerà anche un paese finalmente più moderno e in grado magari di fare meglio i conti con le prossime emergenze, con la necessità di cambiare le nostre abitudini di vita e di consumo.

Farlo significherà spendere, aumentare la spesa per investimenti e la spesa corrente delle nostre amministrazioni? Significherà che Stato, Comuni e Regioni dovranno assumere, dovranno offrire nuovo lavoro ai nostri giovani, ai laureati, ai diplomati?

Si, significherà spendere, significherà usare una parte delle risorse che sembra si siano liberate dalla incrinatura che il coronavirus ha creato nel dogma della impossibilità di indebitarci, per risarcire le amministrazioni pubbliche, la nostra vita associata, i servizi per i nostri bambini, i nostri malati, i nostri anziani di quanto in questi anni è stato loro sottratto dalle politiche di austerità e che tutti loro hanno pagato così caro all’esplodere della pandemia.

Ma saranno soldi ben spesi, per poter gestire la convivenza con il virus e soprattutto per preparare il futuro.

 

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