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Elezioni Afghanistan e Turchia: il voto delle donne e l'illusione del progresso

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Sono all'incirca 300 le donne afghane in corsa per un seggio nei vari consigli provinciali del Paese, anche nelle regioni dove l'influenza dei Talebani è radicata. Nell'elezione amministrativa turca, invece, le prime cittadine sono aumentate del 30% rispetto all'ultimo appuntamento elettorale. Di notizie come queste, certamente positive, l'Occidente distratto si nutre. I media internazionali di tutto il mondo raccontavano con titoli entusiasti il grande passo avanti delle donne, tanto a Kabul quanto ad Ankara. Eppure si tratta solo di una realtà parziale, distorta, spesso monca di un'analisi più approfondita che entri nelle viscere della notizia stessa. Se ad esempio le lunghe file ai seggi elettorali in Afghanistan sono un ottimo segnale, in particolar modo quando ad essere pazientemente in coda sono le donne - fetta di società civile spesso schiacciata per motivi religioso-culturali -, è pur vero che ancora oggi quest'ultime vengono utilizzate "come arma politica" ad uso e consumo dell'egemonia maschile, come mero slogan della campagna elettorale presidenziale. E se in Turchia le donne sono riuscite a conquistare la guida anche di alcuni capoluoghi di provincia (vedi Diyarbakir, Gaziantep e Aydin), la discriminazione continua ad essere un male strisciante, tenuto in vita - tra gli altri - da un gran numero di esponenti tradizionalisti dell'Akp, il partito islamista del premier Recep Tayyip Erdogan.

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Afghanistan: la realtà (e le tante illusioni) sul mondo delle donne

Nonostante la miriade di difetti, in questo caso è necessario spezzare una lancia per la missione internazionale che dal 2001 ha portato mezzo Occidente ad invadere Kabul: i passi avanti per quanto riguarda i diritti delle donne. Prima dell'arrivo della cavalleria, infatti, è lampante che l'egemonia talebana avesse privato la popolazione femminile del Paese di una serie di suoi diritti fondamentali - alle ragazze veniva ad esempio vietata la 'carriera' scolastica, le donne erano costrette a coprirsi il capo e a non lasciare mai la loro abitazione a meno che non accompagnate da un parente uomo -, calpestati dall'esecuzione alla lettera delle leggi islamiche più fondamentaliste. Poi, tredici anni fa, almeno in questo senso la musica è cambiata. La progressiva cacciata dei Talebani, o quanto meno il loro isolamento nelle regioni più remote del Paese, ha permesso all'Afghanistan di fare numerosi passi avanti (rispetto al punto di partenza) in materia di diritti delle donne. Negli ultimi 13 anni, ad esempio, la parità tra i diversi sessi è stata inserita nella Costituzione, così come sono oltre 2,8 milioni le ragazze che seguono ad oggi un percorso scolastico. Inoltre, dato non trascurabile, allo stato attuale le donne costituiscono il 28% dell'Assemblea nazionale.

Tutte queste indubbie realtà fanno giustamente ben sperare sullo stato di avanzamento dei diritti delle donne, ma rappresentano solo una faccia della medaglia: lo strapotere maschile, ed il conseguente annichilimento del ruolo della donna nella società, infatti, non è ad uso e consumo esclusivo dei Talebani. Come sottolineato senza mezzi termini da un recente rapporto di Human Rights Watch, ad esempio, "con il calare dell'interesse internazionale verso l'Afghanistan - il ritiro graduale ma costante delle truppe -, gli avversari dei diritti delle donne hanno colto l'occasione per iniziare a cancellare i progressi fatti dalla fine del regime talebano". Nello specifico l'ONG si riferisce alla EVAW Law, legge sull'eliminazione della violenza contro le donne promulgata nel 2009. Quest'ultima in sostanza integra il codice penale afghano con pesanti sanzioni per reati quali, tra gli altri, il matrimonio precoce o forzato, gli stupri e la violenza. "In maggio - continua il report di HRW -, un dibattito in parlamento sull'importante Legge sull'eliminazione della violenza contro le donne, approvata per decreto presidenziale nel 2009, è stato sospeso dopo 15 minuti a causa delle pressioni di numerosi giuristi parlamentari che chiedevano l'abrogazione della legge e protestavano contro la protezione legale prevista per donne e ragazze. La legge EVAW rimane in vigore, ma raramente viene fatta rispettare".

Insomma, la legge c'è, ma viene applicata decisamente poco. Secondo le parole di Navi Pillay, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, l'attuazione dell'EVAW è colpevolmente "lenta e irregolare, con la polizia ancora riluttante a rispettare il divieto previsto dalla legge rispetto alla violenza sulle donne e i pubblici ministeri e i giudici lenti nel far rispettare la legge stessa". Inoltre, nell'ultimo anno, sono stati numerosi i tentativi (e i fatti concreti) di un forte ritorno al passato: "la revisione da parte del Ministro della Giustizia del nuovo codice di procedura penale - scrive HRW -, con l'aggiunta di una clausola che proibisce ai membri di una stessa famiglia di testimoniare in tribunale nei casi penali, il che rende estremamente difficile perseguire la violenza domestica e i matrimoni infantili e forzati, e il successivo passaggio della legge alla camera bassa del parlamento (la clausola è stata poi modificata, all'apice delle proteste interne ed internazionali, dal presidente); la scarcerazione dopo solo un anno di prigione dei suoceri di Sahar Gul, la tredicenne data in sposa a loro figlio, che loro hanno torturato e tenuta senza cibo per mesi. I suoceri erano inizialmente stati condannati a 10 anni di prigione; una serie di attacchi fisici contro donne impegnate nella vita politica e sociale per tutto il 2013, che ha costantemente tenuto nel terrore le attiviste e le donne con ruoli pubblici".

Tenendo ben a mente questo background, è ora necessario chiedersi: l'appuntamento elettorale di aprile (molto probabilmente sarà seguito a maggio da un ballottagio) può davvero essere un successo per i diritti delle donne? Purtroppo, almeno per il momento, la risposta non può essere che negativa. Secondo molti osservatori internazionali, infatti, nonostante l'entusiasmo con cui sono state raccontate le elezioni un netto cambio di passo e un ulteriore miglioramento è difficile. L'impressione è che i candidati presidenziali abbiano utilizzato durante la campagna elettorale le donne come una bandiera, tenendole in cima alle agende perché consci, altrimenti, di perdere un potenziale e fondamentale supporto (soprattutto internazionale). A spaventare in modo particolare le attiviste e le organizzazioni di tutto il mondo sono i discorsi stessi dei concorrenti al dopo-Karzai, tutti indistintamente incentrati al trovare una mediazione pacifica con i Talebani, spettro che può colpire direttamente i passi avanti in materia di diritti. Insomma, il rischio è che la situazione, più che non cambiare, torni a peggiorare gradualmente e costantemente fino a tornare all'oscurantismo dell'era talebana. Karzai, che ha bloccato taluni provvedimenti palesemente anti-donne solo perché sotto il costante pressing occidentale, nonostante le sue belle parole lungo il corso degli anni non è riuscito a cambiare la società afghana, rimasta fortemente maschilista. Il pieno rispetto dei diritti delle donne è, in conclusione, ancora un sogno, un'illusione. Benché le immagini dell'elezione e della grande partecipazione femminile siano un buon segnale, non vanno dimenticate le nuvole che si stanno addensando sul futuro dell'Afghanistan, sotto il costante rischio di un ritorno al fondamentalismo dei Talebani.

 

Turchia e diritti delle donne: luci ed ombre tra partecipazione politica e discriminazione

A mettere sotto la lente di ingrandimento l'attuale situazione delle donne in Turchia bastano le parole di Yucel Barkazi, eletto sindaco a Bingol, nella parte orientale del Paese. Stando a quanto affermato qualche giorno fa, infatti, nella sua giunta comunale alle donne non sarà affidata alcuna responsabilità, in quanto "non sarebbe ammissibile dal punto di vista religioso e morale" e perché "la società non lo accetterebbe". Ça va sans dire, Barkazi è dell'AKP, il partito islamico guidato dal primo ministro Erdogan. Ovviamente la sua uscita infelice (quanto meno dal punto di vista di chi scrive) ha scatenato subito una serie di reazioni di indignazione, tra cui le dimissioni di Nurten Ertugrul, anch'essa dall'AKP: "non è giusto che un sindaco che ha ricevuto il voto del 65% delle elettrici di Bingol parli così. Ed è contraddittorio fare lavorare le donne giorno e notte in campagna elettorale senza preoccuparsi di regole sociali, religiose o morali, per poi trovare una scusa per escluderle".

Insomma, come abbiamo visto nel caso afghano, anche in Turchia è forte il dubbio che le donne siano servite più che altro come simbolo mediatico di un avanzamento culturale che, in realtà, non esiste. Quel famoso 30% in più di cui abbiamo scritto qualche riga più in su, relativo all'elezione di donne sindaco, è dovuto quasi esclusivamente ad un partito, il curdo BDP (Partito della Pace e della Democrazia), che è riuscito ad incrementare il misero 5% del precedente appuntamento elettorale: "le donne sono le uniche vincitrici" ha detto Selahattin Demirtas, vicepresidente del BDP. Eppure, se si esce dalle quote percentuali, i numeri prendono una piega decisamente più sconfortante: su 1935 primi cittadini eletti, solo 37 sono donne, e come già detto la maggior parte (23) membri di una formazione che a livello nazionale ha ottenuto poco più del 4% dei voti. Una realtà, quest'ultima, riassunta ottimamente in un comunicato rilasciato dall'organizzazione femminile e per i diritti delle donne, KADER: "le elezioni - si legge - sono una vittoria per gli uomini, ancora una volta". Benché alle donne sia infatti permesso concorrere alle elezioni locali fin dal 1930, la scarsa partecipazione e presenza mette in evidenza un Paese ancora fortemente ancorato alle sue origini islamiche, rafforzate nel passato recente dallo strapotere di Erdogan e del suo AKP.

La svolta islamista impressa con forza dall'attuale primo ministro e dalle sue politiche sta infatti gettando la Turchia in un pesante ritorno al passato - nonostante gli sporadici fuochi di paglia come l'annullamento della legge che imponeva alle donne di perdere il proprio cognome assumendo quello del marito -, tra l'annullamento del divieto a portare il velo nei luoghi istituzionali (la cosa dovrebbe essere effettivamente a discrezione, ciò che conta è che sia una scelta della donna e non un'imposizione calata dall'alto) fino al giro di vite sull'aborto. L'interruzione di gravidanza, pratica molto discussa e contro cui si muovono fortemente gran parte delle dottrine religiose mondiali, era stata legalizzata in Turchia nel 1983, apertura dovuta al gran numero di morti che avvenivano per aborti clandestini. Negli ultimi anni, invece, l'AKP è tornata a premere fortemente l'acceleratore affinché l'aborto fosse cancellato dalle pratiche previste e legali nel Paese: nel maggio del 2012 il primo ministro Erdogan disse di considerare l'interruzione di gravidanza come "un omicidio", neanche un mese più tardi l'allora sindaco di Ankara affermava: "quale crimine ha commesso il bambino perché la sua vita sia interrotta? La donna incinta che vuole abortire dovrebbe suicidarsi". Parole agghiaccianti che sono state seguite da fatti concreti: una donna della provincia di Adana, una giovane di 22 anni, ha tentato il suicidio dopo essersi vista negare la richiesta di interruzione di gravidanza.

Tirando le somme, anche in Turchia l'elezione amministrativa (sicuramente solo un banco di prova per la tenuta del governo) sembra aver giovato poco al ruolo delle donne nel Paese. La vittoria schiacciante di Erdogan, che con i suoi primi cittadini dell'AKP è riuscito a mantenere il pressoché totale controllo - almeno a livello amministrativo - del Paese, non lascia aperta la strada a particolari speranze in materia di diritti delle donne e non, basti guardare al blocco di Twitter e YouTube perché considerati, per la loro stessa natura libera e difficilmente controllabile, diavoli nelle mani dei nemici dell'uomo di Ankara. E per quanto riguarda le donne, in conclusione, il rischio è che a regnare sarà ancora per molto tempo il pensiero di Barkazi: presenza femminile ai vertici? "la società non lo accetterebbe".

 

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