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Globalist 2.0 | Vietare il burkini va contro le libertà fondamentali

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Il Consiglio di Stato, dopo le udienze di ieri, ha accettato il ricorso della Lega dei Diritti dell’Uomo e del Comitato contro l’Islamofobia contro le ordinanze anti-burkini, dichiarando illegittimo il provvedimento del sindaco di Villeneuve-Loubet che aveva vietato il costume integrale sulla spiaggia. Nello specifico la Corte ha rilevato come il divieto di portare questo indumento costituisca una grave minaccia alle libertà fondamentali, non giustificata dalle circostanze. Le autorità locali dovranno ora revocare l’ordinanza, mentre le donne multate potranno presentare ricorso. La sentenza fa giurisprudenza e si estende a tutto il territorio nazionale.

La polemica sul divieto di indossare questo capo d’abbigliamento era cominciata all’inizio di agosto, quando, alcuni sindaci del sud della Francia avevano emesso delle ordinanze anti-burkini sulle spiagge. Le ragioni che avrebbero spinto i primi cittadini a vietare questo particolare costume da bagno, andavano dai rischi per l’igiene al principio di laicità, sino a potenziali problemi di ordine pubblico, cagionati, appunto, dalla vista del burkini sulle spiagge francesi. Quest’ultima motivazione ha costituito la spina dorsale della tesi degli avvocati del sindaco di Villeneuve, nell’udienza di ieri al Consiglio di Stato. Secondo i legali, in una zona del paese colpita dall’attacco terroristico del 14 luglio, l’ostentazione della propria fede religiosa, attraverso questo costume da bagno, potrebbe scatenare reazioni violente da parte degli altri bagnanti. Il sindaco, insomma, non vieta il burkini per razzismo, ma per difendere l’integrità fisica e morale delle donne musulmane che lo indossano. Come dire che i francesi, almeno in quella zona del paese, sono talmente razzisti da non poter tollerare la vista di un capo d’abbigliamento che richiami la fede islamica, costringendo così l’autorità pubblica a proteggere le fedeli musulmane da eventuali atti xenofobi attraverso il divieto. Una posizione, quella appena espressa, in linea, almeno idealmente, con le dichiarazioni del nuovo presidente della Fondazione per l’Islam di Francia, Jean-Pierre Chevènement, il quale ha invitato i musulmani a essere più discreti. Il problema è tutto qui. Non è un buon momento per essere musulmani in Francia. Punto.

Sgombriamo il campo da tutti i ragionamenti ingenui o in malafede che vedono nel divieto di indossare il burkini, una tappa importante nella liberazione delle donne musulmane. Basta vivere in Francia, o farci almeno un giro di qualche giorno, per capire che la questione non riguarda i diritti delle donne. Semplicemente perché non interessano a nessuno in questa vicenda. La questione è che molti francesi, come molti italiani d’altronde, non vogliono vedere i musulmani, anche quando sono cittadini come loro. In una deriva pericolosissima, nel corso della quale lo stato francese ha abdicato al suo ruolo, quella che prima era cittadina francese di religione musulmana ,oggi è una donna musulmana. Tutto il resto della polemica non ha senso, perché non ha fondamento, qui e ora, non in questo contesto almeno. C’è davvero qualcuno che crede all’onestà intellettuale di Salvini quando invita i sindaci italiani a imitare quelli francesi e vietare l’uso del burkini, in quanto simbolo di sopraffazione e sottomissione della donna? Si può accordare una qualche credibilità in tema di diritti delle donne a uno che poche settimane fa, durante un comizio, agitava una bambola gonfiabile paragonandola alla presidente della Camera?

Quello sui diritti delle donne musulmane nelle democrazie occidentali è un dibattito importante, di cui si potrà parlare lungamente, ma non è questo il problema in un paese nel quale si stava consumando il classico esempio di sopraffazione di una maggioranza su una minoranza, sulla pelle delle donne. Uomini sono quelli che impongono il velo. Uomini sono quelli che impongono di toglierlo su una spiaggia, davanti a una schiera di bagnanti plaudenti, colti da quella soddisfazione che è dei mediocri e che permette di godere delle umiliazioni inferte agli altri, meglio se questi sono diversi. In tutto questo la donna non ha alcuna soggettività. Non è lei che decide. Non esiste, si potrebbe azzardare. E’ un manichino su cui apporre un velo, o dal quale strapparlo via, in favore di telecamera.

“Il burkini non è compatibile con i valori della Repubblica” ha dichiarato il premier Valls, ricordandoci, ancora una volta, quanto basso sia il livello della classe politica francese attuale, e quanto questa  non sia altro che una campagna islamofoba in nome della laicità.  Diversamente, nessun alto rappresentante delle istituzioni, con un minimo lucidità e visione politica, si addentrerebbe in una polemica su un costume da bagno, mentre il suo paese piange ancora le vittime degli attentati ed esce da mesi di fortissime tensioni sociali. Sicuramente tra i valori repubblicani cui Valls fa riferimento, non c’è la laicità. Perché la laicità, quella della Francia che conoscevamo e che ora non sa ritrovarsi, non è questa. E’, piuttosto, la garanzia di uno stato neutro e libero da condizionamenti rispetto alle confessioni religiose. La libertà personale non può essere messa in discussione.

Ma la Francia di oggi è anche, purtroppo, dare al popolo quello che il popolo vuole. E se una tuta e un velo, che non nascondono in alcun modo i connotati, innervosiscono il popolo, allora bisogna vietarli, per “difendere” le donne musulmane. Più volte nella storia si è isolato qualcuno per “proteggerlo”. E’ sempre finita malissimo per chi doveva essere protetto.

Le conseguenze del divieto del burkini, implicitamente sostenuto dal primo ministro, sono state semplici. Donne che prima erano in spiaggia, restavano a casa perché al mare non ci potevano andare, per pudore, per scelta o per imposizione. In ogni caso non ci potevano andare. E potevano ricominciare a farsi picchiare, sottomettere o negare, tra le quattro mura dei loro appartamenti, come quando il burkini si poteva indossare, e come capita anche dove si indossa un più laico due pezzi. Ma questo non interessa a nessuno. L’importante, però, era che quelle donne, musulmane, non si vedessero. Il resto contava poco. E le poche donne che si sono avventurate comunque sulle spiagge della Costa Azzurra, si sono state costrette a spogliarsi, in pubblico, da agenti chiamati da solerti cittadini in preda al furore della laicità, che non disdegnano di lanciare insulti razzisti, senza che a nessuno, o quasi, passi per la testa di elevare multe nei loro confronti, come prescriverebbe la legge. La scena in questione, peraltro, sta facendo impallidire tutti gli esperti di comunicazione, per la raffinatezza dell’attitudine tafazziana intrinseca. Quanto saranno utili le immagini della donna costretta a spogliarsi, alla propaganda del terrore? Quanto si gioverà di quest’umiliazione la galassia dell’Islam radicale? Parecchio, per non dire moltissimo. Neanche una campagna di comunicazione ben orchestrata avrebbe potuto dare risultati simili.

Ma il popolo vuole questo e bisogna accontentarlo. Solo che, in questa costante deriva nella quale si costruisce un noi e un loro, si sta dimenticando quanto la forza della repubblica francese risiedesse nella cittadinanza, in quella condizione dell’essere cittadino che sembra oggi perdere centralità e sacralità, in favore di una divisione de facto basata sulla confessione di appartenenza. Proprio la situazione che, dopo gli attentati, le istituzioni denunciavano come rischio da scongiurare assolutamente.  

Tutti, da destra a sinistra, vedono nel comunitarismo un pericolo per la repubblica. Vietare un costume da bagno (del tutto innocuo e senza alcun rischio per la sicurezza), o costringere una donna che gioca con i suoi bambini ad abbandonare la spiaggia, non aiuterà di certo a combattere questo fenomeno, anzi.

Proviamo a ragionare per assurdo. C’è un movimento per la liberazione dei capezzoli femminili (o per il diritto al topless) che sta avendo un certo successo e un seguito considerevole in Europa e negli Stati Uniti. La considerazione dalla quale prende le mosse è abbastanza elementare: se gli uomini possono mostrare i capezzoli, non si capisce perché le donne non abbiano il diritto di farlo senza suscitare scandalo. Le eventuali denunce per offesa al pubblico decoro, o anche la semplice riprovazione, costituiscono una discriminazione evidente, frutto di una società maschilista. In quest’ottica il pezzo superiore del costume da bagno femminile rappresenta un simbolo di sottomissione e prevaricazione. In questo caso, la laicità starebbe nel garantire la libertà di passeggiare sul bagnasciuga in topless o nel costringere tutte le donne presenti sulla spiaggia a mostrare il seno? Fino a poche ore fa, in Francia, la seconda possibilità sarebbe stata la più realistica.

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