Livia Firth e Rana Plaza: cinque anni dopo
Il 24 aprile 2013 era iniziato come un giorno qualsiasi. Mi aggiravo per casa preparandomi per andare in ufficio, nella sede londinese di Eco-Age, quando, dal notiziario radio in sottofondo, mi parve di captare la parola Dacca. Chiunque abbia condotto una campagna di sensibilizzazione per un’industria della moda più pulita e sicura non può che mettersi in allerta al sentir nominata la capitale del Bangladesh dal momento che il paese è uno dei maggiori esportatori di moda fast fashion in tutto il mondo, secondo solo alla Cina.
I dettagli giungevano lacunosi: si parlava di un edificio crollato e il numero delle potenziali vittime sembrava essere superiore a 150. Nonostante si riportasse che il Rana Plaza fosse uno stabilimento multifunzionale, quando telefonai a un’amica attivista, la giornalista britannica Lucy Siegle, eravamo entrambe istintivamente concordi nel ritenere che si trattasse di una fabbrica tessile.
Man mano che la tragicità dell’evento emergeva in tutto il suo orrore, i nostri peggiori timori andavano confermandosi. Quando lo stabilimento aveva ceduto come un castello di carta uccidendo 1334 persone aveva messo a nudo il vero prezzo del nostro approccio nei confronti del fast fashion. Come dar senso a quella terribile tragedia e alle sue conseguenze? Non potevo accettarlo. Il crollo del Rana Plaza non può essere archiviato come ‘caso fortuito’ ma ovviamente non era neanche intenzionale. Tecnicamente il disastro ha i requisiti per essere considerato un incidente ma ai miei occhi e a quelli dei tanti attivisti che contestano il sistema del fast fashion, era un incidente evitabile. L’avidità, la velocità, l’irresponsabilità delle grandi aziende e un modello commerciale costruito sullo sfruttamento dei più deboli erano il problema alla radice del crollo del Rana Plaza.
A Los Angeles, quando il regista Andrew Morgan vide la prima pagina del The New York Times con la foto di due bambini della stessa età dei suoi figli che rovistavano disperatamente tra le macerie del Rana Plaza alla ricerca del corpo della madre, anch’egli si sentì colpito, come avesse ricevuto un pugno nello stomaco, dal vero prezzo dell’attuale industria della moda. “Perché mai due bambini dovrebbero cercare la propria madre in mezzo a tutto quel caos? Non era scoppiata nessuna bomba, non c’era stato alcun terremoto: quello che emergeva chiaramente era che dietro la sua estetica aspirazionale, giocosa e spensierata, l’industria della moda nascondeva un terribile pericolo nascosto. Dovevo immediatamente scoprire cosa stesse succedendo.”
Determinato a dipanare il mistero della moda, un’industria mondiale del valore di 3 mila miliardi di dollari, Morgan passò i tre anni successivi viaggiando in 30 paesi per raccogliere immagini e filmati presso fabbriche, botteghe e, a volte persino case, nei centri nevralgici dell’industria tessile. Il suo documentario del 2015 intitolato The True Cost(disponibile su Netflix) mette a nudo il lato oscuro di un settore del quale siamo tutti responsabili.
Man mano che le troupe di giornalisti internazionali abbandonavano la scena, attorno al cratere lasciato dal Rana Plaza il ciclo inarrestabile della moda tornava a rimettere in moto i suoi meccanismi. Gli ordini che non potevano essere completati ed evasi al Rana Plaza venivano con discrezione trasferiti in una delle altre migliaia di fabbriche di Dacca. L’esercito manifatturiero composto prevalentemente da giovani donne assoldava nuove reclute. I sopravvissuti del Rana Plaza che erano stati recuperati da sotto le macerie aspettavano in coda ai cancelli di una nuova fabbrica, traumatizzati ma con un disperato bisogno di lavorare.
Durante i miei viaggi in Bangladesh ho avuto l’onore di incontrare gli operai dell’industria dell’abbigliamento. Li ho visti uscire come un fiume in piena dalle fabbriche a sera tardi. Una volta, dopo l’incidente, ho chiacchierato con una quindicina di donne che lavorano dalle 7 del mattino in un laboratorio di moda. Mi hanno parlato delle loro vite, di quando sono emigrate dai loro villaggi nel nord del paese lasciando che i loro bambini venissero accuditi dai parenti. Ho sentito la loro frustrazione nell’apprendere che anche dopo il disastro del Rana Plaza, le ore di lavoro continueranno a essere implacabilmente dure così come bassi restaresteranno i loro salari. Questo prima ancora di addentrarci nel tema della sicurezza sul lavoro.
Le prime reazioni del settore hanno portato a due esiti: il Rana Plaza Arrangement – un fondo risarcimenti finanziato dai vari marchi coinvolti – e The Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh – un accordo giuridicamente vincolante della durata di cinque anni tra 200 marchi e i sindacati, creato allo scopo di promuovere un’industria dell’abbigliamento più sana e sicura in Bangladesh. Alcuni marchi americani hanno deciso di sviluppare un proprio accordo noto come the Alliance.
E arriviamo al 2018: in occasione del quinto anniversario del Rana Plaza, aspettatevi un’ondata di altisonanti dichiarazioni. Anzi, sono già iniziate da un po’. “Siamo estremamente orgogliosi dei progressi fatti in soli cinque anni,” ha dichiarato lo scorso mese un portavoce per Alliance. “Con tutti gli investimenti nella formazione e nel senso di legittimazione degli stessi operai, il risanamento della fabbrica procede secondo la tabella di marcia. Se si vogliono mantenere tali conquiste nel lungo periodo devono però essere adottate e gestite a livello locale con iniziative che partano dall’interno del Bangladesh.” Sono sincera, a me tali dichiarazioni suonano tanto come un modo per scaricare ad altri la responsabilità.
Nel frattempo, The Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh è stato esteso fino al 2021 ma è preoccupante che dei 200 marchi iniziali, solo 60 abbiano aderito a questa seconda fase. Tuttavia il messaggio trasmesso è che abbiamo imparato la lezione e a Dacca le fabbriche sono un po’ più sicure. Ma in che misura? E cosa significa davvero che la situazione ‘va meno male’? Questi sono gli interrogativi che hanno accompagnato l’intero processo e non posso fare a meno di domandarmi: È davvero possibile riformare il sistema produttivo dell’industria della moda?
Secondo Siegle, l’attuale approccio semplicemente non funziona. “I progressi sono stati penosamente lenti,” mi racconta. “Gli studi condotti in Bangladesh dagli accademici dell’università di Dacca hanno evidenziato ritardi e lacune nell’implementazione degli standard di sicurezza sin dall’inizio.”
Siegle è anche preoccupata del fatto che al fine di ricevere il risarcimento danni in alcuni casi è stato necessario far causa a certi marchi e procedere per vie legali. A gennaio all’Aia, 2.3 milioni di dollari sono stati finalmente ottenuti da un marchio di moda internazionale (il cui nome è stato censurato secondo i termini contrattuali della liquidazione) per finanziare i risarcimenti scaduti alle varie fabbriche. “Ma il tema importante” spiega Siegle, “riguarda la prossima generazione di operai tessili che sarà nuovamente soggetta a condizioni malsicure, inaccettabili e in molti casi addirittura illegali. Dovremmo fare di meglio e di più! E dovremmo agire più rapidamente!”.
Durante lo scorso anno, nella mia personale ricerca di qualcosa di meglio ho lavorato a stretto contatto con avvocati associati a The Circle, la NGO di Annie Lennox dedicata a promuovere i diritti delle donne, con cui ho stilato un documento che definisce il concetto di salario minimo che consente una vita dignitosa e introduce il tema della salvaguardia dei diritti dei lavoratori in 14 tra i maggiori paesi produttori di capi di abbigliamento.Nei cinque anni trascorsi dalla tragedia, l’industria dell’abbigliamento ha spesso dichiarato di voler cambiare per sempre il sistema di produzione, ma nella realtà, la revisione di questo modello commerciale corrotto e insostenibile è lungi dall’essere avvenuta.
Per ravvisare il vero motore del cambiamento occorre adottare una prospettiva esterna. Ho chiesto ad Andrew Morgan se ritiene che siano stati fatti progressi nei cinque anni passati dal disastro che l’ha spinto a creare The True Cost. “In un’industria sempre più ossessionata dal profitto a ogni costo, il caso Rana Plaza rappresenta un incontrovertibile avvertimento che è sempre la gente a pagare il prezzo del nostro consumismo incurante,” commenta. “Nonostante sia stato ignorato dalla maggior parte delle grandi aziende della moda, questo avvertimento ha innescato una nuova ondata di attivisti e imprenditori che sono convinti che possiamo e dobbiamo creare un futuro più giusto, umano e sostenibile.”Questo è il vero cambiamento messo in moto da quel tragico e fatidico giorno.
Testo di Livia Firth