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Una carovana rosa per ripensare la montagna

Scritto da Google News. Postato in Pari Opportunità

Quando ho scritto pagine di storia del Friuli, soprattutto su comunità di montagna, ho dovuto educare la mia penna a evitare parole generiche o troppo vaghe. Se poi l’oggetto di studio era la Carnia, allora nemmeno una virgola poteva scappare dalla penna perché per i carnici la storia rappresenta sempre un insieme di scene dove la comunità può ritrovarsi e scoprire quale collante l’ha tenuta insieme. Luoghi definiti e precisi, azioni di senso, valori che risaltano una attitudine a cercare soluzioni per poter vivere la realtà e, in parallelo, le indispensabili qualità delle persone. Per i carnici, infatti, non c’è vicenda individuale che non contempli una qualche forma di collegamento ai destini comuni. Dicono di sé stessi di essere sempre stati in competizione e in disaccordo, ma se li osservi in situazioni di estrema criticità vedi rispuntare la proverbiale attitudine a cercare contromisure e a condividerle. L’ho scoperto la prima volta mentre analizzavo il crollo della Repubblica Veneta e la reazione delle popolazioni quando le armate napoleoniche arrivano in Friuli e provano a organizzare i Comuni montani trattando con i rappresentanti.

E qui ecco i carnici: gente che ha l’occhio tanto fino da subodorare immediatamente che ogni promessa di eguaglianza, fraternità e autogoverno nasconde solo depredazione di risorse, di fieno, di legname, di animali. Così eccoli a difendersi con diplomatica intelligenza politica anche per evitare le strette del governo provvisorio pilotato dagli udinesi che tra il 1797 e il 1798 è l’unica istituzione autorizzata a emettere proclami per procurare quanto serve all’esercito francese. L’ho visto poi sui documenti che parlano di emigrazione o di calamità naturali perché c’è sempre una rete di cooperazione che tiene insieme chi è partito e chi è rimasto, i singoli e il gruppo. L’ho visto nei fatti collegati alla Resistenza durante la Seconda guerra mondiale quando nel 1944, seppure per pochi mesi, le popolazioni riescono a scacciare i nazi-fascisti e a istituire la Repubblica di Carnia unendo una vasta area nel bisogno e nel diritto alla libertà. E l’ho visto in singole personalità. Prendiamo la figura di Michele Gortani, geologo di fama nazionale vissuto nella prima metà del Novecento. Durante il fascismo avrebbe potuto accontentarsi di una carriera pubblica e di un sicuro prestigio accademico nelle università italiane, invece il legame con la propria terra, il pensiero di unire il lavoro scientifico al miglioramento delle condizioni delle popolazioni è un chiodo fisso. Anzi, impegnato a stimolare il governo per frenare lo spopolamento si trospesso a misurarsi con l’ostilità di alte gerarchie politiche e di gruppi locali collegati alle imprese idroelettriche private, più interessati a mantenere le cose come stanno che a offrire contropartite al territorio per il suo sviluppo. È ormai risaputo che gli interventi di Gortani all’ Assemblea Costituente, dove viene eletto alla fine della guerra, sono stati fondamentali per far conoscere l’unicità dei comparti appenninici e alpini. È anche noto che portano la sua firma i commi degli articoli 44 e 45 della Costituzione che restano un monito a non abbassare mai la guardia sulle fragilità della montagna, sempre bisognosa di particolari provvidenze e sostegni. Tutto questo si collega al nostro presente e alle generazioni dei giovani che si trovano a constatare un’ennesima crisi e a dover fare una scelta. Che cosa è successo alla montagna negli ultimi anni e in questa emergenza pandemica? I caratteri dell’ambiente e l’immutata carenza di lavoro e di servizi mettono alla prova lo spirito di adattamento personale. La domanda è ancora una volta la stessa. Partire, portando con sé il mondo in cui si è cresciuti, oppure restare per costruire azioni di senso, filiere, reti, come è successo in passato? Dicono gli esperti di comunità di montagna che non c’è programma o business-plan che funzioni se i gruppi residenti non esercitano la loro capacità di generare partecipazione orizzontale. Le genti di montagna, insomma, devono poter innovare l’attitudine a colmare un bisogno partendo da una esperienza in comune sia per chi parte, che per chi resta. Che questo sia vero e necessario lo constatiamo dai modesti risultati ottenuti da tanti interventi calati dall’alto, pensati a tavolino, costruiti su modelli e parametri di pura efficienza. Giovanni Teneggi esperto di cooperazione e di sviluppo economico nell’area degli Appennini ha spinto il concetto ancora oltre, affermando un paradosso. La rottura con il negativo di un territorio svantaggiato avviene esattamente quando una nuova generazione invece di andarsene decide di vivere il suo progetto rimanendo, perché non si cambia una terra debole se manca il coraggio di abitarla. Il che significa che figli e figlie non ereditano ma adottano madri e padri con le loro terre svantaggiate. Allora ci chiediamo, è questo il passaggio epocale necessario per colmare un vuoto incombente sulla Carnia di domani condizionata da un lungo processo storico di rarefazione produttiva e demografica? È questo che serve per diventare futuro? Sembrerebbe un’ipotesi contemplata nel progetto “La carovana dell’empowerment al femminile” appena lanciato da sette Comuni guidati da un gruppo di amministratici locali che hanno deciso di uscire dal cerchio stretto delle opzioni percorribili. Prato Carnico, Comune capofila del progetto, Comeglians, Forni Avoltri, Preone, Rigolato, Amaro, Paluzza nei mesi di lock-down hanno deciso infatti di unire le forze e provare a coniugare i temi delle pari opportunità con lo sviluppo locale. Ne parlo con la presidente della cooperativa Cramars di Tolmezzo che ha curato la progettazione. Stefania Marcoccio mi fa capire subito che non c’è ragione di usare frasi di circostanza riguardo situazioni svantaggiate a cui si deve tendere la mano. La sua comunicazione è precisa e coincide con la consapevolezza di sindache e assessore sul legame esistente tra le donne e il territorio, un legame cruciale e strutturale, e non per tradizione, ma perché il motore della vita economica e sociale nelle terre alte dipende da sempre dalla capacità di relazione, di tutela del bene comune, di rifiuto della cultura dello scarto e dell’abbandono praticata dalle donne. Per questo il progetto si articola in 6 workshop e laboratori itineranti (fino al mese di settembre) finalizzati a potenziare questa consapevolezza su più livelli di riflessione e apprendimento. Gli esperti di tecniche di empowerment Carlo Conti, Patrick Moretti se ne occuperanno assieme ad Anna Degan, presidente di Aspic Fvg, che in particolare svilupperà il concetto di comunità nelle motivazioni del ‘popolo rosa’. L’obiettivo è ridare fiducia alle donne affinché possano prendere in mano il destino della terra in cui vivono e sentire i benefici di una rete efficace per idee innovative e azioni coordinate tra sfera pubblica e privata. Infatti, osserva Marcoccio, il territorio montano presenta ritardi, ma anche opportunità di crescita; però se le donne se ne vanno, tutta la montagna inizia a spegnersi. Non è mancanza di spirito di adattamento, succede semplicemente perché diventa insopportabile non avere servizi, una connessione internet adeguata, cose indispensabili per lavorare, vivere con la famiglia, credere in nuove mete. Stefania Marcoccio ha proprio ragione e se vogliamo dirla tutta è un problema di democrazia sentirsi lontani dai circuiti economici, culturali e produttivi a disposizione. Marcoccio parla di pari opportunità e di cittadinanza ma aggiunge anche una parola magica: felicità. E non come una ciliegina sulla torta, ma come valore aggiunto al diritto di scegliere di restare. 

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