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Il pianeta, fashion designer dell’umanità

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

“The women behind the label” - le donne dietro all’etichetta, recita il claim del film, seppur la questione non siano certo pochi centimetri di tessuto che, quasi nascosti ma fondamentali a dare spirito e valore al capo d’abbigliamento in questione, vivono appuntati all’interno di un colletto o sulla cucitura di un pantalone, ma sono le donne, le persone, gli esseri umani che vivono, spesso solo sopravvivono, attaccati alla possibilità di fissare quell’etichetta. 

Così si fa protagonista Shimu (Rikita Nandini Shimu), poco più che ventenne, espressione mimica (dell’attrice) volitiva, assonante con quello che ben presto scopriamo essere il suo spirito di operaia in una fabbrica di abbigliamento a Dacca, Bangladesh, luogo del mondo che, spesso e volentieri, sappiamo esistere “solo” perché – come recita il titolo del film – il vestito che abbiamo in mano o indosso è Made in Bangladesh, una terra votata alla causa dell’abbigliamento, una regione senza cui l’universo della moda mondiale soffrirebbe, ma che, al contempo, soffre nel nome della moda stessa: il film dell’autrice Rubaiyat Hossain, tra la bellezza visiva delle gamme accese delle cromie dei tessuti che le donne maneggiano e il pericolo in agguato per i fili elettrici scoperti delle macchine da cucire, e non solo, mette in scena proprio le complesse condizioni in cui questo lavoro viene fatto svolgere, non raramente nel nome dello sfruttamento, del sottosalario, una forma di contemporanea e accettata schiavitù del nostro tempo, a cui però questa piccola-grande donna della nuova generazione decide di ribellarsi, mettendo in piedi una formazione sindacale femminile, non senza l’ombra delle minacce da parte del datore di lavoro, come anche del marito, ma Shimu è determinata. 

E Fashion Film Festival Milano, in particolare la sezione #FFFMilanoForGreen, che ospita film con una sensibilità ecologica spiccata, ma qui anche un soggetto femminile forte, altro tema pulsante nel cuore del FFFMilano, presenta quest’opera - in partnership con Lifegate -, un film che ha debuttato a Toronto nel 2019, passando poi per Londra, Locarno e il 37mo Torino Film Festival, occasione in cui ha vinto il premio Interfedi, uno tra i diversi altri riconoscimenti mondiali. 

Un film che ha comportato tre anni di ricerca per l’autrice, formatasi negli Stati Uniti e acerba sulle modalità di lavoro in fabbrica, ma da sempre interessata ad approfondire le condizioni femminili e di vita, così da preparare il progetto incontrando molte donne operaie, quelle che “nonostante un misero salario, difficili condizioni di lavoro e la lotta contro il patriarcato tra le mura domestiche” l’hanno affascinata per la “loro emancipazione. Sino a un centinaio di anni fa, in Bangladesh, le donne non potevano neppure lavorare, erano condannate a vivere in isolamento. Oggi lavorano, si guadagnano da vivere e provvedono al sostentamento delle famiglie, lottando per i propri diritti, a casa come al lavoro”. 

Made in Bangladesh - con un titolo che è un’icona pop, qualcosa che tutti noi leggiamo, tocchiamo, e forse su cui poco riflettiamo ogni giorno, ogni volta, o quasi, che indossiamo un abito, o ci spogliamo - non si crogiola nelle prassi del politicamente corretto, dell’inclusione come tendenza, del femminismo arrabbiato o della percezione buonista dello stesso per lavarsi le coscienze occidentali o capitalistiche, ma è un film che fonda il proprio spirito sulla consapevolezza del concetto di diritto umano, sull’autotutela che ciascun individuo dovrebbe aver sviluppato sempre per la propria salvaguardia, e anche per quella altrui, perché il film di Rubaiyat Hossain, per il FFFMilano rientra appunto nella selezione di quelli portavoce della coscienza ecologica dell’essere umano, e del sistema industriale, pertanto “le etichette” di Shimu sono anche, e moltissimo, claim che devono risuonare per sensibilizzare alla salvaguardia del pianeta, “abito” vitale per tutti noi. 

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