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Perché non parlo più di Palestina con le persone bianche / Diritti delle minoranze / Diritti umani / Guide / Home

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Lo scorso dicembre mi trovavo in un pub, infervorata da un dibattito televisivo tra leader sulla notte delle elezioni a cui avevo appena assistito, e sono finita in una discussione sul perché non era stato giusto incastrare Jeremy Corbyn, ex leader del partito laburista, nel suo rifiuto di scusarsi in seguito alle accuse di antisemitismo da parte del presentatore della BBC, Andrew Neil. Ho sollevato la questione dell’esistenza di un’influenza israeliana che agisce nel profondo della nostra democrazia. Un uomo inglese bianco la cui moglie è israeliana mi ha chiesto di smettere di parlare immediatamente. Ho fatto presente al gruppo che i miei cugini sono stati torturati in Israele, quindi questa per me non è solo teoria, e che si trattava di qualcosa che stava anche influenzando direttamente le elezioni nel Regno Unito. Mi è stato chiesto di nuovo di tacere. Ho guardato le loro facce calme e mi sono sentita una donna araba isterica.

Sradicare i palestinesi

Prima dei voli lowcost, all’inzio degli anni ‘90, molti dei miei amici in cerca di avventure, vegetariani, frequentatori assidui di festival e fan dei Nirvana, passarono parte del loro anno sabbatico in Israele lavorando per i kibbutz. Mi arrivavano lettere tramite posta aerea, in cui mi si raccontava con entusiasmo dello spirito di comunità, della luce del sole e della gioia del duro lavoro. Tutto ciò mi metteva a disagio, ma non sapevo perché. I miei genitori, originari della Palestina e della Giordania, mi avevano sempre protetta dalle questioni politiche mediorientali, però mi era capitato di sentire troppe volte parlare di arak e della fessura dei semi di zucca salati. Facevo a mio padre molte domande, da “Perché Riccardo Cuor di Leone, che massacrò tanti arabi, è considerato un eroe della storia inglese?” a “Perché i miei amici vanno a costruire in Israele?”, rispondeva con una stoica alzata di spalle: “Sono fuorviati”. Mi mancava ancora qualcosa: ero perplessa dal fatto che i miei amici di così larghe vedute si trovassero lì. Non capivo il sogno di costruire uno stato utopico, in cui uomini e donne sono uguali – pionieri e idealisti in maniche arrotolate color cachi, che si insudiciano nella terra nuova. Conoscevo le sofferenze del ‘48, lo sradicamento dei palestinesi, l’ineguaglianza tra israeliani e arabi, e sapevo del mondo che volta le spalle alla causa palestinese. Ricordo il momento in cui vidi per la prima volta una mappa del mondo in cui la Palestina non era indicata.

Discriminazione positiva

Negli anni successivi all’11 settembre, le persone presero vagamente coscienza del fatto che gli arabi erano diversi da pakistani e indiani. Si trattava di un debole inizio per venire a patti con l’esistenza dei palestinesi. Poi venne la solidarietà: bianchi che indossavano la keffiyah, gli adesivi con la scritta Palestina Libera, deliziose donne eleganti che raccoglievano firme fuori l’HSBC contro gli investimenti delle banche negli insediamenti illegali in Cisgiordania. Gradualmente, il cibo e la cultura del Medio Oriente si diffusero nella vita inglese, grazie ai supermercati Waitrose e al food writer Yotam Ottolenghi. Dopo i falafel, le persone cominciarono a usare lo zaatar e il sumac. “È di Ottolenghi?” mi chiedevano del cibo che preparavo. “No, è un classico piatto palestinese! Sì, la mia famiglia era cristiana; Betlemme si trova in Palestina”. Nell’ambito artistico, ho goduto del primo assaggio di discriminazione positiva grazie a organizzazioni come la Royal Shakespeare Company (RSC). È stato solo allora che mi sono resa conto del razzismo strutturale che davo per scontato, dato che non mi sarei mai aspettata di lavorare per un’istituzione inglese considerata sacra. Ricordo gli occhi spalancati, il primo giorno alla RSC, per la sorpresa di lavorare all’opera A Museum in Baghdad insieme a un cast quasi interamente arabo. “Hanno fatto entrare gli arabi!” sussurrò un attore con una risatina.

Estremi pericolosi

In una notte di alcuni anni fa, io e un attore ebreo gironzolavamo brilli a Liverpool, dopo aver messo in scena un’opera sull’occupazione, quando dei ragazzi mi chiesero da dove venivo. Non lo chiesero al mio amico, nonostante il suo forte accento di Pittsburgh. Alla mia risposta uno di loro ruggì: “Palestina libera”, prima di fare commenti dispregiativi sugli ebrei aggiungendo qualcosa sul “riportare in vita Hitler”. Guardai inorridita il mio amico; mi rispose con un sorrisetto di nascosto come per dire “te l’avevo detto”. Forse questo ragazzo era un ubriaco qualunque, ma era la prima volta che sentivo un discorso così pericolosamente estremo di ignoranza e odio, con il quale ci si aspettava che io fossi d’accordo. Non si tratta de “gli ebrei”. Non si tratta di tutti gli israeliani. Ho visto inglesi prendere la bandiera palestinese e correre, a volte goffamente, lungo la strada sbagliata. Ciò ha danneggiato la voce palestinese all’interno del dibattito inglese. Come per tutte le discussioni che riguardano la razza e il potere, il linguaggio deve essere analizzato scientificamente e usato con una certa sensibilità. Parliamo di israeliani e palestinesi, o di ebrei e palestinesi; israeliani e arabi, o ebrei e arabi? Io mi ritrovo nelle parole di Reni Eddo-Lodge, autrice di Why I’m No Longer Speaking to White People About Race, sul razzismo: “Esiste una definizione anonima di razzismo come pregiudizio unito a potere”. Secondo questa definizione, i palestinesi non possono essere razzisti nei confronti degli israeliani, dato che non sono coloro che detengono il potere. Eppure, se dicessi che gli ebrei sono più potenti dei palestinesi, ciò sarebbe razzista e rientrerebbe nelle “teorie cospirazioniste ebree” – che il leader laburista Keir Starmer ha recentemente utilizzato come motivo per licenziare Rebecca Long-Bailey. Unire appartenenza etnica e nazionalità toglie la voce ai palestinesi nella lotta contro il razzismo. Ancor peggio, definendola antisemita, coinvolge tutti gli ebrei nelle politiche razziste messe in atto da Israele.

Far crollare Corbyn

Chi decide il linguaggio che usiamo – i palestinesi o gli israeliani? Pare proprio che alla vigilia dell’ultima annessione israeliana passiamo molto tempo a discutere di semantica. Abbiamo un primo ministro che si è riferito agli afroamericani con il termine “negretti” e ha detto delle donne musulmane che “ricordano delle cassette delle lettere” – con la debole scusa di stare dalla parte delle libertà delle donne. Tuttavia veniamo zittiti nella discussione riguardo le politiche di una delle nazioni più militarizzate del mondo. Sappiamo delle proteste, orchestrate con un tempismo perfetto dallo stesso partito laburista, progettate per far crollare Jeremy Corbyn, l’unico abbastanza coraggioso e folle da prendere posizione a favore dei palestinesi. È stato falciato con le accuse di antisemitismo. Nel frattempo poco è stato rivelato sul razzismo all’interno del partito nei confronti di parlamentari neri come Diane Abbott e altri. Tristemente, c’è una gerarchia in gioco, in fondo alla quale si trovano i palestinesi. Il movimento nero ha impiegato centinaia di anni per diventare una causa legittima che gli inglesi accettassero come veicolo di antirazzismo, sebbene non completamente e a volte con riluttanza. Mi sono sentita incredibilmente rassicurata da un recente tweet e dal gesto di cameratismo da parte del ramo inglese di Black Lives Matter (BLM) verso la Palestina. E poi la reazione: “È razzista, è antisemita. Sminuirà la loro causa!”

La storia sanguinosa della Gran Bretagna

Descrivere Israele per quello che è – uno stato colonialista dove milioni di palestinesi vivono sotto occupazione militare e a cui viene negato il diritto di voto, la libertà di movimento e l’autodeterminazione – è ora definito razzista. BLM non agisce all’interno della buona società inglese. Intraprendendo azioni dirette e buttando giù statue di schiavisti, ha scatenato un dibattito necessario. In quanto società, finalmente parliamo dei programmi scolastici e della storia sanguinosa della Gran Bretagna; parliamo del razzismo verso i palestinesi. Vi rendo omaggio, compagni. La reazione negativa al tweet di BLM è uno schiaffo in faccia alla voce palestinese. Il licenziamento di Long-Bailey per mano di Starmer è uno schiaffo in faccia. Anche il suo precedente impegno a favore del sionismo durante la sua campagna per la presidenza era uno schiaffo in faccia. Tutti sanno che devono comprare una quota del credo sionista; che non devono turbare la sensibilità israeliana, e se questo significa ignorare la sensibilità palestinese, pazienza.

Finché affermare il razzismo contro i palestinesi sarà marchiato come qualcosa di antisemita, molti ebrei in tutto il mondo saranno macchiati della responsabilità delle azioni di Israele. In questo circolo vertiginoso, ricordiamoci che per definizione i palestinesi sono anche semiti. Cancellati dalle mappe, sono un popolo traumatizzato che necessita di una patria in un mondo che non vuole accettarli. In quanto persona di origini palestinesi, la storia di Corbyn come ultimo probabile primo ministro che avrebbe sostenuto i palestinesi mi addolora. In quanto cittadina britannica, sono pragmatica e voglio vedere un governo laburista, e una Gran Bretagna migliore dove migliaia di persone vulnerabili non vengono uccise ogni anno a causa dell’austerità. Gli inglesi non sopportavano Corbyn. Sembra che nessuno potrà entrare al numero 10 di Downing Street a meno che non sia amico di Israele. Potremmo avere un governo di centro-sinistra, ma la sua politica estera sarà impantanata nella sporcizia, con il supporto ai dittatori, alle guerre e all’occupazione. Ci siamo già passati, con i centri Sure Star di Tony Blair e gli innumerevoli morti in Iraq. È quello che, insieme a Starmer, gli inglesi tollerano più facilmente. 

Di Tanushka Marah da Nena-news.it

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