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Quel sessismo che imperversa in rete (e nella società) / Notizie / Home

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Silvia Romano è stata ferocemente insultata sui social perché, liberata dopo oltre un anno e mezzo di prigionia, si è convertita alla religione islamica e non ha espresso odio e disprezzo verso i suoi rapitori. E’ stato criticato il suo vestito, il suo sorriso, i suoi gesti, fino ad arrivare a vere e proprie minacce di morte online, su cui i carabinieri del Ros hanno aperto un’indagine. Insulti dello stesso tipo colpirono anche le due Simona rapite in Iraq nel 2004, mentre questo non è accaduto per i sequestrati all'estero di sesso maschile che pure si erano convertiti all’Islam. Ma Silvia Romano è una donna, è giovane, appartiene al mondo della solidarietà e ha avuto il coraggio di tramutare i propri ideali in realtà. Come tante prima di lei ha pagato il prezzo del semplice fatto di appartenere al genere femminile. Perché se sei una donna, ancora di più se sei una donna che si discosta dai pregiudizi e dagli stereotipi di genere di cui la società italiana non si è mai liberata, per gli odiatori – uomini e donne – sarai sempre un bersaglio. Un odio che con internet e i social media ha trovato il modo di amplificarsi e diffondersi più velocemente grazie al meccanismo di polarizzazione su cui fa leva la rete, accrescendone la dannosità. L’abbiamo visto sempre di recente con la giornalista Giovanna Botteri, presa di mira per il suo aspetto fisico e i suoi vestiti, con Carola Rackete, che rappresentava il bersaglio ideale in quanto donna, giovane e in prima linea a sostegno delle persone migranti, Laura Boldrini, Michela Murgia, Liliana Segre e molte altre. L’odio online si è scatenato perfino nei confronti di un’adolescente come Greta Thunberg, “colpevole” di aver portato all’attenzione di tanti giovanissimi la causa ambientalista. Ci si nasconde dietro al diritto di critica e di opinione, dimenticando che le parole più usate per offendere queste donne e ragazze sono spesso a sfondo sessuale, o fanno leva sull’aspetto fisico, e possono essere di una violenza inaudita. Basta guardare i dati.

Secondo il rapporto di Amnesty International intitolato “Sessismo da tastiera” uscito ad aprile, le donne online subiscono più attacchi rispetto agli uomini e sui social quasi un contenuto su quattro che ha come argomento “donne e diritti di genere” offende, discrimina o incita all’odio contro le donne (o una donna in particolare). La ricerca ha analizzato i contenuti relativi a 20 personaggi noti italiani, 10 donne e 10 uomini, tra cui Chiara Ferragni, Roberto Saviano, Laura Boldrini, Tiziano Ferro, Giorgia Meloni, Gad Lerner, Vladimir Luxuria, Saverio Tommasi e altri, in un periodo di 5 settimane, da novembre e dicembre 2019. I dati mostrano come vi sia una maggiore propensione ad attaccare le donne rispetto agli uomini: “Tra i commenti che le prendono di mira in modo personale ed esplicito, l’incidenza dei casi di incitamento all’odio, il cosiddetto hate speech, è superiore di 1.5 volte”. E tra gli attacchi personali alle donne, 1 su 3 fa riferimento a quegli stereotipi e a quelle false rappresentazioni sulle quali il sessismo si fonda. Ma non c’è un canone a cui aderire per poter sfuggire a questi insulti: per l’hater la donna è inappropriata, sempre e comunque. “Si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani – afferma Gianni Rufini, Direttore di Amnesty International Italia – Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta”. Preoccupante il fatto che a innescare la miccia sono spesso coloro che più di tutti, per status e responsabilità, dovrebbero fare attenzione a ciò che dicono e come lo fanno (politici in primis). E non è detto che il bersaglio debba essere per forza una donna “in vista”: la gogna può capitare a chiunque si esponga anche solo con un commento.

Un fenomeno, quello del sessismo in rete, che ha radici profonde nella vita reale. Basta guardare i dati pubblicati nel 2017 dalla Comissione Jo Cox nel report intitolato “La piramide dell’odio in Italia”. Per citarne alcuni: il 20% degli italiani pensa che gli uomini siano dirigenti di impresa e leader politici migliori delle donne; il 49,7% ritiene che l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia e che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche; il 32,9% non ritiene necessario aumentare il numero di donne che ricoprono cariche pubbliche; il 34,4% ritiene che una madre occupata non possa stabilire un buon rapporto con i figli al pari di una madre che non lavora. E così via. Una serie di pregiudizi sostenuti da stereotipi tanto imprecisi e sovrageneralizzati, quanto duri a morire. Ed è proprio il mancato riconoscimento di pari diritti e pari opportunità ad aprire la strada ad atteggiamenti discriminatori, anche con il linguaggio violento, quando non con azioni violente vere e proprie. Sempre secondo la relazione della Commissione Jo Cox, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito almeno una volta una violenza fisica o sessuale, per lo più da un partner o ex partner. Per quanto riguarda l’hate speech online, a livello europeo una donna su dieci dai 15 anni in su è stata oggetto di cyberviolenza.

Se i picchi di violenza a cui assistiamo – come nel caso di Silvia Romano – fanno disperare dal trovare soluzioni, la società si può cambiare anche a piccoli passi, e le donne stesse anche in Italia non sono state a guardare. A partire dall’ex presidente della Camera Laura Boldrini che, dopo essere stata presa di mira dagli haters – tra cui diversi politici – ha cominciato a denunciare i responsabilidestinando gli eventuali risarcimenti a progetti di educazione digitale. Tra le altre iniziative importanti: la commissione contro odio, razzismo e antisemitismo di Liliana Segre istituita in Senato; l’iniziativa “Odiare ti costa” lanciata dall’avvocata Cathy La Torre, che fornisce assistenza legale alle vittime di hate speech; i preziosi monitoraggi e l’opera di contro-narrazione dell’Osservatorio VoxDiritti; l’associazione Parole O-Stili che ha dato vita al Manifesto per la comunicazione non ostile e inclusiva, adottato da numerosi parlamentari, Comuni e aziende. 

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Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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