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Cosa voleva dire abortire in Italia prima della legge 194 PRONTO

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Un viaggio su un pulmino invaso dal silenzio. Ho 16 anni e ho appena abortito. Illegalmente. Sto tornando da questa drammatica trasferta. Siamo in venti, di età diverse. Donne, ragazze. Alcune giovanissime. Non ci parliamo. Ognuna ha qualcuno seduto accanto, perlopiù amici. Io invece sono sola. Il mio fidanzato è al mare, proprio oggi ha accompagnato la madre in villeggiatura. Ciò che è appena successo non è già più affar suo. Ho abortito in una struttura protetta dal segreto di una catena umana di persone che rischiano per aiutarci. Funziona così: un aborto sicuro, praticato da professionisti, ma clandestino.

Siamo nel 1968 e abortire in Italia è ancora illegale. Chi mi ha operato però forse ancora non sa che ciò che ha appena fatto contribuirà a cambiare la storia delle donne italiane per sempre.

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Uno scatto in Viale Gorizia durante una manifestazione a Milano, nel 1977.

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Durante il viaggio il silenzio è rotto da respiri strozzati. Molte di noi prima d’ora non sapevano che gli antibiotici annullano l’effetto della nuova pillola, che è molto utilizzata tra le più giovani. Guardo oltre il finestrino, tutto mi scorre davanti senza toccarmi. Non piango, voglio solo scendere da qui. All’arrivo vado subito a casa: i miei genitori non sanno nulla. Mia madre non sopporta di aver partorito una figlia così strana, ribelle. È cattolica, per lei l’aborto è un atto del diavolo. Ora sono ancora più sola, e sono in frantumi. Tra non molto però tornerò su questo pulmino seduta in testa a tutte. Il viaggio lo conosco, sarò io ad accompagnare le altre.

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"Donne, ribellarsi è bello": uno degli slogan della manifestazione femminista a Milano nel 1977.

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Un anno dopo infatti collaboro con il consultorio come volontaria. La ragazza che ero ora è già una donna. Dopo quello che è successo a me non posso restare a guardare. Devo ricambiare. Al consultorio mi insegnano ad assistere chi ha fatto la mia stessa scelta. Un giorno mi trovo davanti a una signora dalla voce straziata dal dolore ma severa. Ha un figlio malato, che trasporta ogni giorno sulle spalle in un palazzo popolare, senza ascensore. Il marito l’ha stuprata e ora non dà al medico altra scelta: o mi fate abortire o preferisco morire. Poi qualche mese dopo aiuto una giovane cameriera che lavora in casa di un’amica, un appartamento del centro. Mentre le figlie della borghesia vanno all’estero, a pagamento, il suo destino è segnato. Accompagno ragazze come lei fuori città. Rivivo quel giorno dei miei 16 anni, ma ora sono io la loro spalla. Quando non c’è nessuna struttura disponibile però si opera in casa. E così pochi anni dopo, il momento arriva anche per me.

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Uno scatto durante la manifestazione organizzata dal movimento femminista italiano nel 1975.

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Ricevo una chiamata, serve un appartamento per cinque donne che non possono lasciare la città. Offro subito il mio. Lo divido con una coetanea, consenziente. Abbiamo solo 21 anni e per noi è una scelta politica, un atto di disobbedienza necessaria. Arrivano tutte insieme, hanno età diverse. Entrano in casa in silenzio: i vicini non devono sospettare nulla. Giù in strada, intanto, un medico è seduto in auto a luci spente. In caso di bisogno è pronto a sfrecciare verso un ospedale, sa cosa rischia. Di sopra siamo riunite in sala, già allestita come una sala operatoria. Prepariamo un tè per tutte. Tra i loro volti mi rapisce quello di una ragazzina. È stata stuprata dal padre. È arrivata con la madre, che non le lascia la mano. Provo a immaginare che cosa stia provando: odia questo figlio da prima ancora di concepirlo. Odia tutto. Il padre, la famiglia e la madre che non fiata e vuole metterci una pietra sopra. Odia persino se stessa, si sente sporca. Mi chiedo cosa ci sia dentro al silenzio di quella donna che la stringe a sé. Non lo saprò mai.

«Mi chiedo cosa ci sia dentro al silenzio di quella donna che la stringe a sé. Non lo saprò mai».

Qui c’è un altro medico, un professionista che offre il suo tempo per impedire i rischi del tipico aborto clandestino. Ora il metodo è l’aspirazione, meno invasivo del raschiamento. L’intera casa è disinfettata, non c’è tempo da perdere: la prima si stende sul lettino, mentre le altre si dividono nelle stanze. Nell’attesa parliamo di tutt’altro, l’appartamento è invaso da una sorellanza fortissima. Non servono spiegazioni, nomi, giustificazioni: siamo donne che aiutano altre donne. Dobbiamo far sì che si sentano al sicuro. Passiamo le ore successive ancora tutte insieme. Nessuna però dorme lì. Quando la casa si svuota esco anche io, mi rifugio al cinema. Mi abbandono sulla poltroncina. Le immagini scorrono vuote, le voci degli attori sono solo un sottofondo. Poi a notte fonda torno a casa a pezzi, mi stendo sul letto ancora vestita. Chiudo gli occhi, non voglio pensare più a nulla.

«Non si dimentica: di più, si rimuove. E ora si rischia di tornare indietro. Penso all’Alabama...

Oggi ho settant’anni e ho cambiato vita. Però vedo ancora quei volti. Li sento, i loro occhi nei miei. Non ho mai più incontrato nessuna di loro. Con alcune ci siamo scambiate lunghe lettere, senza mai tornare sull’argomento ma raccontandoci le nostre vite. Non si dimentica: di più, si rimuove. E ora si rischia di tornare indietro. Penso all’Alabama, dove una senatrice ha firmato la legge più restrittiva d’America che riporta l’aborto all’illegalità. O al Missouri dove l’ultima clinica abortista è a rischio chiusura. Mi indignano le donne che ancora pensano che se ne possa fare a meno. Voi ragazze non date mai i vostri diritti per scontati.

«Voi ragazze non date mai i vostri diritti per scontati».

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