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Unesco sostiene le giornaliste molestate

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

di Paola Serristori

“Giornalista? Cercati un altro lavoro!” La frase di Azizatu Sani, nata ad Abuja, Nigeria, rappresenta molte, moltissime di noi giornaliste. Perché il talento, la sensibilità, la passione, l’integrità di una donna che intraprende il lavoro di informare gli altri danno fastidio. La verità è un’arma potente contro interessi illeciti. Zittire la stampa fa comodo. Ne sanno qualcosa coloro che lavorano nell’informazione sul surriscaldamento climatico.

Allora la discriminazione per quelle che non si fanno corrompere, né economicamente, né accettano le avance francamente anche volgari del capo – che non è mai un sosia di Richard Gere – è che tu sei donna, non adeguata, non all’altezza e… quella è la porta. Se non te ne vai, ti mettono nella condizione di andartene. Nell’era di internet, la violenza psicologica sulle giornaliste è aumentata: allusioni all’essere donna, insulti, minacce. Chi trova il tuo indirizzo lascia avvertimenti sul pianerottolo: cibi marci, biglietti macabri, minacce di ritornare quando tu sarai in casa e per te sarà peggio.

L’UNESCO ha dedicato una giornata alle giornaliste vittime di molestie. #Journalists too. Una conferenza in cui queste donne coraggiose, che non si autocensurano, si sono raccontate.

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Secondo uno studio del Fojo Media Institute, Linnaus University, Stoccolma, riferito da Lars Tallert, a capo del dipartimento delle politiche e dello sviluppo internazionale, che ha per obiettivo, il rafforzamento del giornalismo indipendente, “negli ultimi 12 mesi il 65% dei giornalisti ha ricevuto minacce contro il 5% del resto della popolazione. Il 15% delle giornaliste è stata minacciata di stupro, rispetto al 5% delle donne. Ci troviamo in un’urgenza democratica.”

“La Nigeria è un Paese dove la religione ha un grande potere – prosegue Azizatu – e mi è capitato di esser invitata ad una conferenza in cui ho dissentito con l’opinione di un uomo. Mi sono sentita accusare di non avere rispetto perché ho detto che non ero d’accordo. Al momento non ho realizzato che anche questa è una discriminazione. Nella società ti fanno credere che è normale che la donna sia inferiore all’uomo. Ho ricevuto attacchi sul mio account social. Accuse, minacce. Quando sono andata a chiedere al mio capo di fare qualcosa mi ha risposto di non infastidirlo con queste sciocchezze e che mi fossi permessa una seconda volta avrei dovuto cercarmi un altro posto. Sono stata lasciata sola. Il sindacato nazionale dei giornalisti non mi ha sostenuto, né aiutato. È normale che una donna che risponde ad un uomo sia accusata. Alla fine ho chiuso tutti i miei account e ho creato una mia pagina. Almeno vivo in pace. È la passione che ti spinge ad intraprendere questo lavoro, se perdi la passione non puoi più farlo.”

Clarice Gangard, 31 anni, olandese, editorialista e programmista, che ha parlato davanti all’Assemblea generale dell’ONU sui diritti delle donne, esorta alla resistenza, più che resilienza: “Bisogna combattere il pregiudizio: è normale che io sia accusata, che fa parte del lavoro. Dobbiamo restare dritte in piedi. La stima di sé deve restare intatta. Soprattutto mai uscire di scena anche se la violenza psicologica ed il peso dell’isolamento della vittima possono farla ammalare. Ho conosciuto colleghe che ad un certo punto hanno rinunciato a combattere per la loro dignità ed il loro lavoro. Nel momento in cui vi attaccano è fondamentale avere un’organizzazione che vi sostiene.”

Tina Johansen, dirigente dell’Unione danese dei giornalisti, che si batte per il rispetto della libertà di stampa, riferisce l’esperienza di una stagista: “Per mesi ha ricevuto email contenenti la minaccia di stupro. Non dimentichiamo che un giornalista indipendente è un pericolo e c’è sempre chi ha interesse a fare tacere le voci nuove per indure la società a formare un pensiero unico. Invece bisogna parlare a voce alta. Un sentimento che accomuna chi è vittima degli haters è la solitudine.”

Francine Compton, canadese e rappresentante della comunità ijndigena di Sandy Bay, produttore esecutivo e direttore del comitato canadese per World Press Freedom, la libertà di stampa mondiale: “Non è successo a me personalmente, ma sono stata testimone di una vicenda che ha portato alla malattia una nostra produttrice. Si era rivolta al mio network perché aveva lasciato un’altra rete in seguito agli attacchi che facevano allusione alla sua famiglia, alla sua vita privata. Le sono stati diagnosticati sintomi di stress post-traumatico. Quando ha cominciato a lavorare da noi chi la perseguitava ha cercato di screditarla. Noi l’abbiamo sostenuta. Ma pensate a quale violenza ha ricevuto. Dobbiamo ripetere sempre questo messaggio: non riguarda una sola, ma tutte noi.”

Nighat Dad, direttore della Digital Rights Foundation, pakistana, nel 2015 tra i leader della next-generation su TIME Magazione: “Nel 2016, anno in cui è stata introdotta la legge sui crimini online abbiamo ricevuto talmente tante denunce, tremila in poco tempo, che noi, piccola organizzazione, non potevamo gestirle tutte. Molte giornaliste chiudevano i profili online e si ritiravano. Altre si ammalavano di depressione, di disturbi mentali. Le loro foto venivano usate per macabri fotomontaggi, ad esempio.

Audrey Herblin-Stoop, direttore Francia e Russia delle Politiche di sicurezza di Twitter spiega: “Stiamo perfezionando sempre più i nostri sistemi per intercettare i flussi di odio online e bloccarli. Il problema che si pone è capire dove finire la libertà di espressione e comincia un attacco criminale contro una persona che non si conosce neppure, come avviene sovente per le giornaliste. Quello che ognuno deve fare è capire che i reseaux sociali non sono la vita vera. Oggi internet è scambiato per la vera vita, ma così non è.”

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