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Verso il Tempo delle Donne, la felicità dopo un trauma: ecco come è possibile ritornare a essere sereni

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

«La felicità è come raggiungere la cima di una catena montuosa: va conquistata. Se ti calassero in vetta con un elicottero sarebbe semplice e rapido, ma non saresti così appagato. E la felicità è fatta di attimi, perché in montagna non ci vai tutti i giorni».

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Certe notti passate in ospedale

Chiara Stoppa, attrice, nata a Pordenone nel 1979, ha affrontato un tumore nel 2005 e il suo ampio sorriso non lascia spazio ai dubbi: dopo diversi cicli di chemio e radioterapia ha superato il linfoma di Hodgkin e ha ritrovato un’esistenza piena. «Sono sempre stata positiva e ironica, anche da malata. Non sono diventata più forte, più brava, migliore. Sono la stessa Chiara, anche se il cambiamento c’è e lo sento. Ma si può essere felici anche durante la malattia. Ho un ricordo bellissimo di certe notti passate in ospedale, sola nel buio, la luce che entrava da fuori e le voci delle infermiere nel corridoio: mi sono sentita viva». Chiara ha trovato la forza per reagire nel suo grande amore, il teatro. Tanto che dalla sua esperienza è nato un monologo, Il Ritratto della Salute (diventato anche un romanzo), di cui reciterà alcuni brani il prossimo 7 settembre quando, durante il Tempo delle Donne, ci sarà un incontro dedicato alla felicità dopo un trauma.

Il sondaggio

È indubbio che un incidente, una malattia grave, un lutto, un evento traumatico ci cambiano e niente è più come prima. Ma — ci siamo domandate — serenità e leggerezza vengono cancellate per sempre? I momenti di piena felicità non torneranno mai più? O forse, dopo aver superato una grande difficoltà, si può persino avere una vita migliore? Chi ci è passato ammette di aver attraversato tutto l’ampio spettro di sensazioni umane, dalla rabbia più cupa alla disperazione, per poi approdare a un mondo nuovo, nel quale ci si sente più forti, si dà maggior rilievo a ciò che conta davvero e si riesce a non sprecare tempo ed energie in contrattempi di poco conto. Insomma, scampata la grande paura, si guarda all’esistenza con occhi sereni. Abbiamo chiesto il parere dei lettori, in un sondaggio online a fine giugno 2018: hanno partecipato quasi 1200 persone, più donne che uomini, in media 50enni. Alla domanda: «Si può tornare a essere felici dopo un trauma?», il 65 per cento ha risposto positivamente.

Serve farsi una risata

Ne è convinta Elisabetta Iannelli, avvocato e vicepresidente dell’Associazione Italiana Malati di Cancro (AIMaC), che non ha mai perso il sorriso nonostante la sua esperienza. A 25 anni le sue giornate sono state sconvolte da una diagnosi di tumore al seno aggressivo con una prognosi che lasciava poche speranze. Grazie a una terapia inizialmente sperimentale è invece riuscita a cronicizzare la malattia e nel 2018 ha festeggiato un doppio traguardo, il compleanno che lei definisce «25 di 50»: 50 anni d’età, 25 dei quali trascorsi con il tumore. Un quarto di secolo durante il quale (continuando a fare una flebo al mese e altre cure) si è laureata e sposata, ha avuto una figlia, svolge la professione di avvocato e porta avanti il suo impegno per difendere i diritti dei pazienti oncologici, specie sul lavoro. Si definisce ottimista, speranzosa, amante della vita: «Chi affronta un tumore diventa una persona più forte, più determinata, più motivata a difendere la vita e ad apprezzarla — dice —. La messa alla prova forgia il carattere. Quella che viene dopo la malattia è una felicità diversa, intensa, che gode momento per momento, con maggiore consapevolezza. Anche durante i periodi difficili serve farsi una risata, trovare spazi di evasione e normalità».

Come si supera il baratro? Stando agli esiti del sondaggio servono tempo, pazienza, forza interiore, accettazione e rassegnazione. E solo dopo viene l’aiuto delle persone vicine (familiari, partner, amici, ma anche personale specializzato). «Non si può combattere da soli la malattia — sottolinea Iannelli —. La famiglia è il punto di forza, ma conta anche la cerchia di amici con cui puoi tirare fuori rabbia e angoscia per quello che ti è capitato. Aiuta a elaborare. Ascoltare è la dote di chi ti sta vicino».

La «famosa» resilienza

È dello stesso parere Alessandro Milan, giornalista e scrittore classe 1970, padre di due bambini e vedovo di Francesca Del Rosso, morta nel 2016 dopo una lunga battaglia contro un tumore. Pochi mesi fa ha pubblicato il libro Mi vivi dentro, una storia piena di speranza, amore e attaccamento alla vita, nonostante tutto. Un inno alla resilienza, la capacità di affrontare e superare le difficoltà, da esercitare quotidianamente: «Mi ha aiutato Francesca a capire che chiedere aiuto, condividere e fare rete è importante — racconta — . Molte persone che leggono il mio libro mi dicono che hanno capito di più della loro vita». Come si supera una sofferenza così grande? «Il dolore è un muro: o lo abbatti a testate (ma ti fai male e non riesci), o speri che si sposti (ma non lo fa) o cerchi di oltrepassarlo. Io l’ho attraversato, senza lasciarmi schiacciare, l’ho tenuto con me. La felicità per me non è una condizione ottimale da raggiungere, ma qualcosa che si costruisce giorno per giorno nelle piccole cose. Camminare, magari barcollando, ma andando sempre avanti».

Un’esperienza traumatica lascia comunque un segno indelebile e cambia le persone: «Sono più consapevole del valore della vita — conferma Milan —, ma anche più fatalista e pauroso perché ho capito che la morte davvero viene a bussare e non è così fisicamente lontana. Ci penso più di prima». E non è il solo.

Il pessimismo e la forza

Il 71% delle donne e il 64% degli uomini dichiara di sentirsi più forte dopo un trauma, ma anche più tormentato. Come racconta Sultana Razon, moglie di Umberto Veronesi: donna eccezionale, pediatra, medico, scrittrice. Nata nel 1932 da una famiglia ebrea di origini turche, durante la sua vita ha conosciuto le avversità più dure: lutti, tumori, malattie (anche dei figli) e un’esperienza tra le più traumatiche che un individuo nel secolo scorso possa aver sopportato, la deportazione da bambina nel lager nazista di Bergen-Belsen. «Certamente dopo sono diventata pessimista, vedo sempre il lato negativo. Quello mi protegge un po’, perché posso calcolare quel che mi aspetta — osserva Sultana, che tutti in famiglia chiamano Susy —. Sono comunque momenti effimeri, quelli di felicità. In seguito, avevo una forza che a volte sembrava sovrumana, tra il lavoro, i sei figli, i turni, le malattie. Mi faceva ridere chi si lamentava per minimi dolori o chi faceva diventare enormi le piccole difficoltà di ogni giorno».

Quando le chiediamo come ha fatto a ricostruire la sua vita e a essere di nuovo felice senza che il peso del suo vissuto la schiacciasse, parla della giovinezza: «Forse ero incosciente. Era tutto come se fosse un film. La gioventù dà forza e determinazione. Hai tutto da costruire e da fare».

Piccoli sprazzi di felicità come atti di resistenza

La dottoressa Razon non ha parlato della deportazione per 50 anni, ma adesso ogni anno presso il Centro Asteria di Milano incontra centinaia di ragazzi e racconta loro com’è stato possibile tutto questo. Sul palco assieme a lei il professor Andrea Bienati, docente di Storia e Didattica della Shoah, che con noi ricorda gli ex deportati che ha conosciuto: «Nei lager strappare alla misera esistenza quotidiana piccoli sprazzi di felicità era un atto di resistenza: ricordare un momento della vita precedente, gioire per una selezione scampata o per la febbre passata. E una volta tornati, i sopravvissuti sono diventati maestri di ripartenze: ognuno con la propria formula, così come ognuno aveva patito traversie differenti».

«Non sceglierei di rinascere senza la malattia»

La ricostruzione di sé e l’impegno in un progetto (di vita, di lavoro o entrambi) sono per alcuni le leve su cui fondare il futuro. «Farò il ricercatore grazie alla mia malattia», dice Sammy Basso all’indomani della conquista della laurea appena avvenuta. A 22 anni è il più longevo al mondo tra gli ammalati di progeria (malattia che provoca un invecchiamento precoce). La sua ricetta per la felicità è «circondarsi di persone che ti vogliono bene, oltre a coltivare sogni per il futuro e — afferma con coraggio — non sceglierei di rinascere senza la malattia perché i miei amici, le mie esperienze li ho vissuti così ed è grazie a questa condizione che sto diventando un ricercatore. Non la vivo come una condanna, né come una punizione divina: è solo una piccola parte di me».

Sammy Basso

In treno verso la felicitàIronia, determinazione e progettualità contraddistinguono anche il lavoro di Iacopo Melio, giornalista, scrittore e influencer costretto da sempre in sedia a rotelle per una malattia genetica rara: «La felicità nel mondo della disabilità è qualcosa che va conquistato giorno dopo giorno imparando a vedere il positivo in quello che ci succede. L’ironia e l’autoironia sono canali straordinari per aiutare gli altri a mettersi nei tuoi panni, per stimolare l’empatia e combattere i pregiudizi». Con questo spirito e lanciato alla ricerca della felicità nel 2015 ha fondato l’associazione #vorreiprendereiltreno, una onlus che si occupa di sensibilizzazione all’abbattimento delle barriere architettoniche e culturali. «Volevo prendere il treno per innamorarmi e incontrare la ragazza dei sogni», racconta Iacopo. Insieme al cantante Lorenzo Baglioni (ospite a Sanremo 2018 con la canzone Il congiuntivo) ha realizzato un video virale intitolato Canto Anch’io (sulla musica della celebre Vengo anch’io. No tu no di Enzo Iannacci) che parla della difficoltà di un disabile a spostarsi anche solo per assistere a una partita di calcio.

Iacopo ha chiamato il suo libro autobiografico Faccio salti altissimi, titolo emblema delle storie che abbiamo raccontato: esistenze in salita, quasi miracolosamente ricostruite dopo essere state spezzate, poi sorprendentemente piene e felici.

Un augurio da Zanardi per chi sta ancora annaspando

Alla domanda: «Quali sentimenti si provano verso chi ha affrontato esperienze così dolorose?» i lettori mettono al primo posto l’ammirazione. Quella che sicuramente suscita Alex Zanardi che, in questa carrellata di persone eccezionali in tema di rinascita può ben dire la sua. Stimato prima dell’incidente, osannato dopo, ammirato durante le fasi di riabilitazione, che ha fin da subito raccontato senza sconti. Della felicità cosa pensa oggi? «Che siamo troppo somari per abituarci a godere delle cose, soprattutto quando vanno bene: troviamo sempre una nuova ragione per lamentarci. Quando accade qualcosa di imprevisto è invece una nuova occasione per provare a rilanciare, laddove è possibile, senza viverla come un’ossessione». «Non voglio fare il guru» si schernisce Alex (anche se per noi un po’ lo è) e conclude con un augurio per tutti quelli che stanno ancora annaspando: «A distanza di anni posso dire che quello che mi è capitato ha migliorato la mia vita. In fondo ci sto molto comodo in questa esistenza che sto percorrendo. Vi auguro di vedere il vostro cammino e di trasformarlo nell’occasione per fare un passo verso l’orizzonte che state inseguendo».

28 luglio 2018 (modifica il 28 luglio 2018 | 22:53)

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